John Sutherland: quando la pittura si fa spazio di liberta'
100 dipinti di grandi dimensioni, retrospettiva di 25 anni Il gesto e lo sguardo: l’auscultazione della realtà nel dinamismo di un’arte che è comunicazione diretta col mondo. Le opere sono in mostra presso il Centro di Ricerche Storiche d’Ambra. Un affascinante percorso tra lucide follie di colori, un viaggio onirico tra le realtà del mondo contemporaneo e mitico, osservate attraverso lo sguardo rapido e profondo di chi sa catturare l’immagine traendola al contempo dall’interno del Soggetto e dall’esterno dell’Oggetto, un’esplorazione dell’anima nelle tortuose auscultazioni di un universo in agonia: è questa l’arte di John Sutherland, è questo l’itinerario iniziatico ai misteri dell’oggi che le opere del pittore in mostra al Centro di Ricerche Storiche d’Ambra delineano con straordinaria icasticità e mirabile potenza.
Un’arte, quella di Sutherland, che nasce dal gesto, da un gesto che è libera espressione immediata e mediata di un’istanza dell’animo, da un gesto che è verifica esistenziale della capacità di mettersi in relazione con l’esterno. L’arte di Sutherland – che ha origini australiane, sebbene sia ischitano di adozione – più che un ripiegamento sull’interiorità e un avvitamento progressivo nel Sé, è una forma liberatoria di un’urgenza dell’animo che ha in sé, però, il desiderio di guardare all’esterno del proprio spazio interiore, tanto che si potrebbe dire che lo spazio interiore – che è forza psichica che comunque emerge nei grovigli della pittura – si fa cassa di risonanza della realtà esterna, specchio e riflesso tangibile e intangibile di una comunicazione diretta e immediata con il mondo esteriore (e immediata non nel senso che sia un’arte irriflessa e priva di filtri ragionativi, bensì in quanto tanto elaborata mentalmente e sottilmente interiorizzata che sulla tela il rapporto col mondo risulta, allo sguardo dell’osservatore, quasi la naturale estrinsecazione di un potere che definirei di “ascolto del reale”). Ciò che si intende dire è che l’arte raffinatissima del Sutherland è più spesso rivolta all’esterno che all’interno, e che questo “esterno” – intuito più che rappresentato, fascinosamente abbozzato più che delineato – è talmente interiorizzato che l’osservatore percepisce nel risultato finale dell’elaborazione pittorica, che è poi l’atto ultimo di un travaglio interiore e di un’ispirazione mai forzata, la vigorosa forza di uno “sguardo”, quello dell’artista, sul reale e sull’irreale o meglio su una sorta di reale archetipico, che è sguardo nell’interno e nell’esterno, nel “fuori” e nel “dentro” rispetto ad una soggettività che preme i confini della coscienza per divenire prorompente forza di conoscenza che diviene comune, collettiva e fruibile, talora quasi pedagogica. Ed è naturale poi che lo sguardo di Sutherland debba fare i conti con un altro sguardo, che è il nostro, sicché nella visione/fruizione della creazione estetica all’opera sono due sguardi paralleli e complementari, e da questo gioco di sguardi nasce più che una pura sensazione, una vibrazione dell’intelletto, quasi come un’apertura su uno sconfinato orizzonte di pensiero. Si tratta, in questo senso, di un’arte intellettiva che prevede la partecipazione dell’osservatore per la decifrazione/comprensione non tanto della tela in sé, quanto di quel “reale” di cui l’opera si fa tramite, quasi che le acrobazie cromatiche provenienti dall’impulso di un gesto (im)mediato abbiano in sé la forza di esprimere i problemi dell’odierno più di quanto possa fare un’arte discorsiva e parlata, proprio in quanto un’arte siffatta si libera dalla vana retorica e si produce in tanti squarci di riflessione quanti sono i vibranti e rapidi gesti che producono arte e sono essi stessi arte. E così i labirinti interiori delle forze psichiche si liberano nell’estrinsecazione gestuale-esistenziale (talora espressionistica) di un mondo lacerato da tensioni e contraddizioni: ecco allora la serie delle “Periferie urbane”, i luoghi senz’anima che le tele ci rimandano in astratte figurazioni pittoriche da cui emerge un inquietante senso di abbandono e di desolazione, oppure le opere che ci consegnano uno sguardo lucidamente allucinato sulle guerre e sulle devastazioni compiute dall’uomo sull’uomo, o ancora le immagini relative alle catastrofi naturali messe tristemente a punto dal consorzio umano (si veda, ad esempio, la struggente “Agonia di tartaruga marina” in cui si fa evidente – mediante un gioco di monocromia celeste – la crudele dissipazione delle potenzialità naturali dovute, e mi servo delle significative espressioni di Umberto Galimberti, alla sostituzione della “Legge del Tutto” con quella “dell’uomo sul Tutto”, che ha determinato gli squilibri parossistici cui assistiamo mai troppo vigili, mai troppo attivi). E questo sguardo sull’esterno, che è poi sguardo su un esterno interiorizzato e su un interno esteriorizzato, somma di impressionismo ed espressionismo risolta in un neo-gestualismo vibrante che ha tratti esistenziali, sguardo che guarda l’esterno e non lo fotografa, ma lo ripone nella psiche per poi trarlo fuori trasfigurato, essenzializzato, purificato e translucido, cartina tornasole di una risonanza dell’anima che si fa poesia pittorica, questo sguardo, dico, può volgersi anche alle terre lontane ed archetipiche del mito, da cui trarre come da un serbatoio sempre abbondante e vivido innumerevoli significazioni dell’alterità sempre profondamente intuita e magistralmente resa nel gioco psichico di forze incrociantesi nella mente e sulla tela (di qui i viluppi cromatici, nodi dell’anima, nodi della realtà prima che nodi di colore). Il mito diviene così metafora e figurante prezioso di una realtà sempre viva che emerge nelle sembianze magiche di un universo mai lontano, che si fa specchio di una dimensione conscia e inconscia, tanto onirica da invertirsi nel suo contrario di un immaginario per niente sognante. Di qui nascono opere come “L’armatura di Ettore”, in cui il guerriero omerico è immaginato nel momento della negazione di sé, che epicamente è esaltazione massima del proprio Io, allorquando dilaniato dal furioso Achille sotto le mura di Troia (ma lo spazio nella tela del Sutherland è assente; la dimensione cromatica dello sfondo è il bianco decontestualizzante e attualizzante di uno spazio che è il non-spazio del sempre: Ettore come simbolo non tollera restrizioni spazio-temporali), il fiero combattente teucro si disintegra in brandelli neri, che sono poi i pezzi disuniti ormai della sua armatura con cui a suo tempo si era identificato in una totale simbiosi con la sua missione di difensore dell’alma patria. Di qui, da questo disperato tentativo di aggrapparsi al mito – non per evadere in un sovramondo fiabesco e leggendario, ma anzi per direzionare in senso intro- ed extro-iettivo un dinamismo di significati che dall’odierno trascorrono al mitico e viceversa – nascono opere che del gesto smisurato e abnorme dell’artista-creatore conservano la soave armonia; ma quest’armonia non è una pacificazione formale, ma un’inquietudine che ci dice tutto nel massimo dell’oggettività, che è però inevitabilmente e splendidamente un’oggettività riflessa e, pertanto, squisitamente soggettiva. Ma la grandezza dell’arte di Sutherland è, a mio avviso, in quell’apparente mancanza di senso che guida il gesto istintuale del pittore e in quella pienezza di senso che invece poi emerge dalle sue opere, ed emerge proprio in virtù di quel gesto che, seppure incosciente nell’istante, in realtà reca in sé la straordinaria stratificazione concettuale di una riflessione maturata nel tempo che da inconscia si fa conscia solo nella realizzazione ultima dell’opera, quando le tonalità cromatiche sulla tela (i soggetti, ad acrilico e ad olio, sono realizzati prevalentemente a spatola: il risultato estetico è nell’originario dinamismo della tecnica ed anzi nell’ancor più originario dinamismo della mente creatrice che nell’istante intuisce e nell’istante realizza) recano in sé un significato multiplo che paradossalmente non si cerca consapevolmente di comunicare ed eppure si comunica con maggior forza in quanto non è un’istanza dell’intelletto – che pure opera nella stratificazione concettuale della crescita spirituale dell’artista – ad agire, bensì l’agito è tutto determinato da un’istanza dell’anima, mentre il gesto, completamente immemore (non sa e non vede: eppure la mano creatrice, si direbbe, ha occhi e sente), porta a realizzazione quell’alchimia di cui quasi non si comprende infine chi è l’artefice. E nel gioco di sguardi (dell’osservatore e dell’artista, che a sua volta è deframmentato e scisso negli sguardi rifrangentesi della psiche e della mente, del corpo e della mano, del gesto e dell’intelletto) veramente ha la meglio non la volontà precostituita di una coscienza senziente e coordinante, ma il libero equilibrismo di una forza onirica che spinge le visioni fino al limite del dicibile e del comprensibile, di una forza che l’artista riesce a lasciare andare, quasi che tale forza fosse il doppio del Sé artistico, forza fascinosa che tracima e riconduce ad una profonda visione etica come a un bacino comune da cui ogni cosa ha origine e in cui ogni cosa rifluisce. E lo straordinario risiede per l’appunto nel fatto che questa visione non è imposta volutamente sullo schermo bidimensionale (e aperto) della tela, bensì naturalmente s’impianta grazie a quella sintesi portentosa tra gesto e psiche che porta sul quadro la forza di un’eticità mai tematizzata direttamente e che eppure si tematizza da sé grazie all’incanto di un’indole profondamente artistica e morale, lì dove il Bello e il Bene si identificano. Lo sguardo multiplo di cui si diceva, talora viene apertamente approfondito in sede estetica in tele come “L’occhio del serpente”, in cui l’osservatore è immesso completamente nelle profondità verdi e scarlatte dello sguardo ferino (il gioco degli sguardi, in questo caso si moltiplica all’infinito) e “Bufera”, in cui lo sconvolgimento naturale di una tempesta acquista le sembianze antropomorfiche di vortici che assumono le fattezze di due occhi penetranti. Lo sguardo si fa così cifra di un’apertura, cioè propriamente di uno sguardo aperto all’esterno: e l’arte di Sutherland è per l’appunto questo, non l’auscultazione passiva di sé, ma occhio rivolto verso il mondo, tangibile tassello esperienziale di una comunicazione col reale. S’intende, poi, che questo così diretto coinvolgimento col reale non preclude strade di sublimazione, ed anzi non solo il mito, ma anche il mondo letterario coi suoi fantasmi potentemente suggestivi può farsi mezzo catartico di esplorazione del reale: ecco allora la tela del “Don Chisciotte” animato da un vitalismo terribile e sconvolgente, e ancora la profondità vermiglia di un’opera come “Francesca da Rimini” in cui il celeberrimo V Canto dell’Inferno dantesco è compendiato in tratti furiosi e dal dinamismo estremo. Il reale così indagato, così refertato, così sublimato può essere allora veicolo di valori, di ricerca intellettuale, di critica: e critica nel senso etimologico, “discernimento”, da “krìno”: e discernere significa per l’appunto vedere (ritorna il tema dello sguardo e degli sguardi), osservare con occhi lucidi il degrado di un mondo sconvolto da assurdi principi economici (si pensi al drammatico quadro che accenna alla “New Economy”), da disastri ambientali sempre più evidenti (si veda, una tra tutte, un’opera come la vibrante “Desertificazione”), da guerre e stragi di ogni tipo (straordinariamente toccante il quadro rappresentante con movimento di circolare affettività le ricurve “Madri bosniache”). Sutherland osserva con disincantata e lucida intelligenza il triste baratro in cui la terra tutta sembra sprofondare, e lo fa attraverso i segni mossi e vibratili, talora allucinati, della sua pittura nitida come una poesia ben riuscita: eppure qualcosa si può fare, per salvare questo mondo trascurato e sfruttato, e quel qualcosa risiede in quel margine di luce offerto per l’appunto dall’osservazione, dalla comprensione: l’intellettuale che osserva, che comprende lancia il suo grido d’allarme; sta a noi raccoglierlo per combattere con dignità a che la Vita non scompaia nel nulla, non sia rinnegata nella solitudine di grigie “banlieus”, non sia respinta e rifiutata nell’agonizzante trauma della natura devastata. Le terre del mito e della letteratura offrono, in tal senso, non solo un corrispettivo simbolico, un figurante suggestivo delle nostre realtà eterne del sentimento, ma possono indicare una strada, un sentiero, stretto forse, che travalica i confini dell’Arte per giungere nelle lande desolate della Realtà e consegnare un’eredità di fiducia e di mutamento, di spinta energetica verso il Bene che platonicamente coincide col Bello, verso quel Sole che Sutherland sembra indicarci per sfuggire alla banalità tremenda e assurda dell’insipienza umana. Per approdare in una terra luminosa che noi possiamo forgiarci nel concreto. Per pervenire in un porto pacifico, guidati dalla conoscenza e attuazione di un ordine etico che solo può placare quel “Kaos” che ci siamo creati. Per ristabilire uno sguardo coerente sull’interno e sull’esterno, uno sguardo dell’anima che è pulsazione vibrante del gesto. E quel gesto è operosità attiva e ripristino di valori e, al fondo, ristabilimento di giustizia. E libertà.
(Saggio di Massimo Colella, pubblicato sul quotidiano “Il Golfo” l’ 11 giugno 2009, inserto Arte e Cultura)
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