Il barbone di Casamicciola e la liberta'
Quando l’Arte sottrae la Cronaca al Divenire. Un confronto intersemiotico tra il dipinto acrilico “Barbone nella luce” di John Sutherland e la lirica “E’ morto ieri…” di Pasquale Balestriere. A guidare John Sutherland nella creazione delle sue opere, mediante l’improvvisa e scattante subitaneità del Gesto che vi si imprime (sgorgante dalle stratificate profondità dell’inconscio), è di norma il supremo ideale etico (tanto potente nell’artista da risultare a lui connaturato) della Libertà:
è questa l’idea-guida della sua produzione, questo il vessillo estremo del suo dialogare artistico, questa la parola-chiave del “messaggio” sutherlandiano (un messaggio che – seppur dilatato e ribadito in così numerose estrinsecazioni fattuali, schegge, “aforismi” e finanche micro-racconti su tela – è perfettamente unitario nella sua genesi e nelle sue finalità e, quindi, nella sua consistenza globale). Ora, talvolta capita che un artista possa trovare nel reale, persino nel quotidiano, la manifestazione simbolica della propria “Weltanschauung” (ossia, della propria visione del mondo) e rintracciare così nel Concreto, quasi verificandone la possibilità e la fattività, la Teoria che si è costruito nel tempo, quell’Ideale (se vogliamo, “astratto”, ma di cui in anticipo si era compresa non solo la bellezza, ma la realizzabilità, sognandone un’attuazione) che tutt’ad un tratto pare avere un perfetto referente emblematico in un elemento della realtà, in un fenomeno, in una persona, forse finanche in un oggetto; allora l’artista vede dimostrato il proprio teorema: le equazioni teorico-speculative che s’era costruito mentalmente risultano tutte vere e verificate; l’Idea è divenuta Realtà, carne, verità effettiva, concretezza: il non-luogo e il buon-luogo dell’u-topia si trasformano nella determinazione geografica di un fatto di cronaca. E’ esattamente questo ciò che è accaduto a John Sutherland nell’osservare il barbone che anni fa era solito coricarsi sui marciapiedi lungo la Marina di Casamicciola: il suo ideale supremo di Libertà, quello che – si diceva in apertura – muove le fila tutte della sua operazione artistica e del suo “pensiero creativo”, aveva trovato quasi, per così dire, conferma e prova di validità in una persona che d’improvviso s’era caricata di un immenso significato simbolico, e la terra impersonale delle Idee si era trasformata per incanto nelle lande, di certo e in certo senso desolate ma potentemente vive, dei Fatti. Così, il clochard che si rifiutava di recarsi presso un qualche ospizio o casa di riposo, preferendo la sua infinita libertà ed era così fieramente attaccato alla sua vita di senza-tetto da non voler seguire altre strade, per una strana ma comprensibile ragione divenne per Sutherland l’eroe ultimo (ed anche, forse, l’ultimo eroe) di un ideale divenuto realtà e di un sogno che si verificava non essere una pura chimera. Quando poi il barbone della Marina, intabarrato nel suo cappottone, diede il suo addio alla vita, la morte di quel simbolo vivente, di quell’esempio di immensa libertà, dovette sortire nell’artista l’effetto come di uno strano stordimento; tuttavia in realtà non per questo svanirono le speranze di quell’ideale a lungo coltivato che quasi s’era concretizzato e “realizzato” (nel senso di un “nascere alla realtà”, un “divenire realtà”) in quella peculiare esistenza, ma anzi forte si affacciò subito nell’artista l’inquieta e sentita volontà di evidenziare ed eternare il valore di quella scelta di vita e di quell’uomo mediante una sorta di sua potente trasfigurazione: quella morte fu, cioè, non motivo di abbattimento, bensì – sia pur nella commozione e nel turbamento – lo stimolo essenziale per continuare a cantare l’ideale della Libertà in un’opera suggestiva e vibrante, “Barbone nella luce”, in cui in un incanto di vivido chiarore si staglia il profilo di una sagoma coricata, un corpo che si libra a mezz’aria, trascinato quasi grazie ad una misteriosa forza da terra per innalzarsi in un metaforico “cielo” perfettamente illuminato, a significare un’apoteosi (nel senso originario del termine) di un’esistenza che anche in punto di morte ed anzi “nella” morte riesce a soddisfare fin nelle plaghe dell’infinito e dell’eterno il suo sogno di libertà. In altri termini e semplificando, morto l’uomo, non muore la Libertà, anzi essa ne riceve come un surplus di spessore in quanto si mettono in moto i meccanismi della memoria, e in questa memoria – che diviene moderno “epos” – il barbone si colora vieppiù dei colori accesi di un simbolo eterno, anche perché poi – per singolare destino – questa vicenda (la morte di un uomo umile, che non sembrerebbe avere in sé nulla di sensazionale) stimolò, oltre all’“imagery” del Sutherland, anche (e contemporaneamente) l’estro poetico di Pasquale Balestriere che, in memoria del “barbone” morto “tra due fioriere, stanza da letto di piazza Marina”, scrisse una lirica struggente, “E’ morto ieri…”, vincitrice – peraltro – del premio letterario “Città di Rufina”, Firenze (1999). E la lirica, più di quanto apparentemente e di primo acchito non possa sembrare, presenta – a partire, naturalmente, dall’elementare analogia tematica – numerosi punti di contatto con l’opera sutherlandiana: la morte del barbone si carica, infatti, in entrambi i casi di un profondo valore esistenziale, diviene la traccia di una verità pulsante, assurge a potente simbolo; in entrambi i casi, poi, l’Arte – quella tanto autentica da non tollerare specificazioni di sorta ed etichette definitorie – canta con la sua voce eterna, la voce propria di ogni manifestazione non transeunte dello Spirito, ciò che altrimenti sarebbe destinato a perire, anche nel ricordo; in entrambi i casi, infine, il barbone – reso simbolo, divenuto metafora, immortalato, consegnato alla Storia e all’Arte – si carica di un sovra-senso valoriale, diviene un messaggio di valore, sebbene proprio sotto questo aspetto si riscontri la differenza più evidente tra le due opere artistiche: il contenuto e la volontà di simbolizzarlo sono identici, ma diverso è il “contenuto”il valore che si è inteso dare al medesimo referente simbolico. Infatti, mentre il dato sottolineato da Sutherland riguarda prevalentemente un anelito di libertà, cosicché la morte di una metafora vivente qual è il barbone segna l’avvio per una potente trasfigurazione, una sorta di innalzamento estatico del personaggio che è immaginato in uno spazio al di là della vita e dell’umano, esaltato così in un’onda di luce che lo glorifica, il Balestriere tende ad evidenziare un altro tipo di significato valoriale, con una particolare sensibilità rivolta verso l’“aurea mediocritas” (Carmina, II, 10) dell’oraziano “est modus in rebus” e lo scenario di un’esistenza paga di sé (“gli bastava che la luna stillasse per lui viniferi grappi di luce e di calore (…); bastava che gli pungesse le narici il salso sapore di mare in sprilli di brezza”). Inoltre nella lirica – che quasi riecheggia gli insegnamenti del Venosino circa la “metriòtes” e l’“autàrkeia – si avverte uno spunto polemico contro coloro che sono definiti “i farisei della turistica immagine” che gioiscono di quella morte in nome di una falsa (e solamente esteriore) pulizia, così come è presente un rapido accenno, nella chiusa, al valore della generosità disinteressata (“una volta m’offrì tutto il suo pane”). Se dunque a levarsi in Sutherland è un registro decisamente “epico” (l’innalzamento del barbone nella luce è una sorta di scena tragica che si manifesta sul palcoscenico del mondo e della fantasia del “cantore” moderno) che non fa che esaltare il personaggio e sublimarlo alla luce di un sentire “eroico-titanico”, nella lirica del Balestriere la tonalità adoperata è quella di un livello “intimo-elegiaco”. Lì l’epos, qui l’elegia; lì la drammaticità, qui la delicatezza eterea di parole quasi bisbigliate; lì l’eroe, qui l’umile-saggio che quasi seguendo gli autentici precetti di Epicuro circa il vero “piacere” (“atarassia” e “aponia”) risulta essere “gigante” nel suo “cappotto-bara”. Tuttavia, nonostante la presenza di queste differenze, entrambe le espressioni artistiche – pur nella loro (peraltro magnifica) unicità – non sono che un tributo sincero al medesimo semplice uomo. E soprattutto, come l’“armonia” di cui parla Foscolo nei “Sepolcri” che “vince di mille secoli il silenzio”, sopravvivranno al tempo, recando in sé la memoria del barbone della Marina di Casamicciola e della sua profonda lezione di vita. E’ per questa via davvero che l’Arte riesce a sottrarre la Cronaca al Divenire. Eternare. O, almeno, ricordare. Per sempre.
Massimo Colella ( Quotidiano “Il Golfo” del 7 gennaio 2010, pag.8 Arte e Cultura”)
E’ morto ieri ...
E’ morto ieri il barbone tra due fioriere, stanza da letto di piazza Marina. E’ morto il gigante barbone nel suo cappotto-bara tra gelati
soffi ( saranno paghi i farisei della turistica immagine, sgombro il porto della sua presenza ). Eppure gli bastava che la luna stillasse per lui viniferi grappi di luce e di calore, compagno il brillio confidente delle stelle; bastava che gli pungesse le narici il salso sapore di mare in sprilli di brezza, che gli danzasse agli occhi di gabbiani un volo, mentre cuccioli indifesi nelle tane uggiolavano del cuore.
Chiusi i conti del dare e dell’avere d’impareggiati bilanci. Che conta?
Io, per me, so solo che s’è chiuso il giro d’un volto ispido ma chiaro che una volta m’offrì tutto il suo pane e mi sorrise dall’aspro pastrano.
Pasquale Balestriere
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